C’è un dialogo sottile nella dialettica tra il luogo fotografato e l’interpretazione dell’artista che traduce creativamente l’immagine dell’Amarena Fabbri. È la prima volta che Stefano Scheda lavora sugli interni e lo stimolo gli viene proprio dalla “committenza”.
L’autore istituisce una condizione di equilibrio instabile tra la scena, un confessionale all’interno di una chiesa, e un oggetto improbabile, la tendina in tessuto a motivi decorativi ripresi dal vaso Fabbri. È un raffinato gioco di rimandi: il peccato di gola è un cortocircuito intrigante dato dall’accostamento inconsueto con la dolcezza di Amarena Fabbri che fa tornare bambini. La contaminazione è il suo modus operandi: nella fotografia ripresa dal vero, senza interventi in post produzione, l’interno si trasforma in un luogo incoerente. L’autore è un esponente della fotografia performativa interpretata poeticamente. Egli idea, progetta e realizza la tendina, motivo paradigmatico della sua “opera aperta”. Il decoro ripreso dal vaso Fabbri è un omaggio, che, come il plagio, accompagna da sempre la creazione artistica. La resa finale è un cortocircuito della realtà senza alterare la sua fisionomia oggettiva che mette in gioco le conoscenze e i sentimenti dello spettatore.
La composizione classica rende ancor più efficace la decontestualizzazione degli elementi della scena (la tendina e il confessionale) e la loro ricomposizione nell’immagine. La ridefinizione estetico-concettuale, in apparenza assimilabile al procedimento artistico surrealista, è un atto comunicativo la cui originalità è la comprensione del rapporto fra l’idea e la sua realizzazione osservabile e concreta.

Pagano avvalendosi del servizio Google Street View, che consente di visitare virtualmente tutte le vie delle città e dei paesi del mondo intero, percorre la Via Emilia, sosta a Borgo Panigale e ad Anzola. Sul tetto della portineria nella sede di Via Emilia Ponente campeggia una versione “fuori scala” dello storico vaso bianco e blu, icona simbolo dell’azienda.
Nel prato davanti allo stabilimento di Anzola dell’Emilia, tra una quinta di siepe e alcuni alberi sullo sfondo troviamo un’altra versione “in grande” del vaso Fabbri. Pagano si reca sui luoghi, usa una fotocamera di grande formato, e riprende fronte e retro della “scultura” iconica, avvalendosi del punto di vista dall’alto. Pagano mette in campo diverse tecniche, la tecnologia informatica, la fotografia analogica e la stampa UV.
Non si avvale della meccanicità delle immagini virtuali, e sulle fotografie in bianco e nero imprime, con il sistema di stampa UV, il disegno del vaso di Amarena Fabbri, virato in blu. Le quattro fotografie accostate danno luogo a una complessa forma fotografica. L’intreccio grafico trascrive il dato paesaggistico in un’immagine concettuale che comunica la coesione tra il luogo di produzione e la riconoscibilità iconica del prodotto.

Pezzani prosegue la ricerca sulla capacità del mezzo fotografico di restituire il non “visibile”, quelle forme del reale che l’occhio umano non è in grado di cristallizzare in immagini definite. E traduce i risultati dei suoi studi in forme glamour, che, come già evidenziato dalla critica, sembrano intrecciarsi all’elegante evanescenza del mondo pubblicitario.
Aequilibrium è uno still life che non solo rappresenta un oggetto ma altresì simboleggia la leggerezza e l’equilibrio. Il mestolo col suo pomellino rosso come le ciliegie è in perfetto equilibrio come una bilancia sul coperchio semisferico del vaso. Una composizione che rappresenta in nuce la storia di Amarena Fabbri.
Pezzani conosce bene l’arte cinese e i motivi decorativi delle porcellane sviluppatisi nella provincia di Jiangxi, e diffusasi in Italia nel XVI secolo, inizialmente nell’area d’influenza dei Medici. Gli storici motivi blu su fondo bianco in Aequilibrium si prestano a sottili interpretazioni. Che cosa lega le grottesche tardo cinqucentesche ai mobiles di Calder o agli universi segnici di Steinberg, si chiede André Chastel. Una affascinante sosta in questo itinerario iconografico merita la famosa sala dei giocolieri nel Castello di Torrechiara che Pezzani conosce bene.
In equilibrio i Jongleurs su quattro leoni eseguono complicati esercizi con i cerchi. In perfetto equilibrio è il cucchiaio sul coperchio, perfettamente bilanciati il punto rosso del mestolo sul bianco e blu del vaso.

Oppedisano visita e fotografa lo stabilimento di Bologna dando un’interpretazione astratta ma al tempo stesso riconoscibile della catena di produzione e imballaggio di Amarena Fabbri. Scatta immagini grafiche con l’idea di stratificare le diverse esposizioni avvalendosi di una tecnica messa a punto ai tempi dell’Università, quando per ottenere fotografie “impressioniste” usa filtri RGB (Red Green Blue i colori base che usano i monitor per visualizzare le immagini). L’intenzione di Joe è andare oltre la semplice rappresentazione della realtà per cogliere la sintesi dei molteplici momenti dell’esperienza quotidiana e la complessità della nostra percezione del reale.
Straz Fabbri appartiene alla serie Straz (Stratificazione del tempo e dello spazio) alla quale l’autore lavora dai primi anni del nuovo millennio, e s’inserisce in una ricerca che data gli anni Novanta. L’autore utilizza una tecnica particolare, modificando la macchina fotografica per ottenere che i diversi fotogrammi del rullino si accorpino l’un l’altro. La fusione tra un negativo e l’altro, realizzati in tempo reale, crea una nuova visione data dalla scomposizione in frammenti dell’insieme stesso. L’autore accosta le sequenze dilatando e frammentando l’unitarietà dello spazio fotografato con l’idea di rompere l’abituale visuale dello scatto e di rendere la frammentazione ottica. Joe realizza uno spazio fittizio, simile ma allo stesso tempo diverso da quello reale. La metamorfosi dello spazio e le distorsioni della grande immagine creano movimento e al tempo stesso spaesamento; come le immagini formate dalle riflessioni multiple del caleidoscopio o la sintesi degli spazi nei mondi fantastici di Escher. La sperimentazione è un modo di creare nuovi linguaggi e visioni, e cercare di rappresentare un’emozione interiore: in questo sta il rapporto tra la fotografia e l’Amarena Fabbri, cuore dell’immagine.

Die Liebe 2018 è un’indagine sulla memoria e una riflessione sui linguaggi della storia dell’arte. Un lavoro concettuale che ribalta la normale prospettiva. L’autrice coltiva la lentezza dell’atto fotografico che sedimenta lo sguardo; contamina creativamente e connette la complessità del contemporaneo alla variegata costellazione della storia dell’arte.
Nell’opera di Brigitte il colore rosso non si oppone al nero e al bianco ma li assorbe. Nel simbolismo alchemico la rubedo è una delle fasi dell’antico sistema esoterico e insieme al bianco forma una coppia di opposti la cui unione viene denominata nozze alchemiche. Coniunctioche è espressa creativamente in Die Liebe 2018in un linguaggio aulico, e insieme minimalista. Le amarene, rosso nel rosso, sono due corpi che si sfiorano e si uniscono. L’elaborazione concettuale di Brigitte è un percorso intenso ed espressivo dentro la materialità dell’immagine: i panneggi fiammeggianti delle Madonne di van Eyck, il drappo rosso nello sfondo di Giuditta e Oloferne di Caravaggio, la paura che il nero inghiotta il rosso in Four Darks in Red di Rothko. La sua però è un’immagine sachlichkeit, di un’oggettività lucida, senza trucco, e pure egualmente fortemente emotiva. Brigitte attinge, suggerisce lei stessa, alla profondità della superficie materica trasmutata nel Grande Rosso P. n. 18 (1964) e in Rosso Plastica (1961) di Burri, che riaffiora nella stratificazione segnica di Die Liebe 2018. Ma guarda anche al minimalismo ingrandito di Domenico Gnoli, cui è riconducibile il fuori scala dell’oggetto fotografato. L’amarena ha una doppia valenza: l’incontro tra la memoria della materia e i ricordi dell’infanzia; la dolcezza di un frutto, che, come gli incontri più cari, ha dentro la parola “amore”.

Il lavoro di Mazzali, un trittico, è composto di tre opere, Rosso, Nero e Bianco da esporre in quest’ordine. Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto sembri: il titolo si rivolge direttamente allo spettatore e indica in quale direzione si muove l’autore. La sovrapposizione delle immagini dà luogo a risultati imprevedibili e disorienta il fruitore. L’autore procede su un doppio registro, sovrapponendo uno spazio fisico e uno spazio onirico. L’immagine è ottenuta con una doppia esposizione, un’immagine eseguita in studio, poi ripresa in esterno. Rosso, Nero e Bianco sono i colori delle ampolle che raffigurano le tre fasi principali della Grande Opera, l’itinerario alchemico di lavorazione e trasformazione della materia, finalizzato a realizzare la pietra filosofale.
L’opera di Mazzali si sofferma sulla trasformazione degli elementi ancora indivisi, prima della loro fusione. Nel Rosso il dettaglio di un’amarena si sovrappone a un’immagine del portico di San Luca. Il Bianco, un particolare del vaso, si specchia nelle Due Torri; infine il Nero del Nettuno si riflette nelle amarene immerse nel loro dolce sciroppo. Avvicinandoci vediamo le amarene, che rappresentano uno spazio onirico; da lontano lo sguardo coglie lo spazio fisico della città. La tradizione di un prodotto che vive, come un ricordo felice, nella nostra memoria, e Bologna, uno spazio fisico, dove ha avuto inizio la produzione della “Marena Fabbri”, una città alla quale l’azienda rimane tuttora legata.

Vaseros Fabbri di Mataro da Vergato è una riflessione sul corpo come materia e linguaggio. Le pose dei corpi maschili e femminili disegnano i tipici decori faentini bianchi e blu del vaso Fabbri. Gli spettacolari esercizi fisici del performer acrobatico e le coreografiche posizioni della ballerina della Scala, stilizzati nell’architettura grafica dei corpi, sono convertiti in motivo déco. La teatralità coreografica delle pose è un sapere che l’autore ha appreso nel suo passato di danzatore classico e attore di teatro.
In Vaseros Fabbri non soltanto si perde l’identità del soggetto ma il rapporto tra la figura e lo sfondo, come insegna la Gestalt, inganna il nostro occhio: un trompe-l’oeil, o, più precisamente, un trompe-l’esprit, voluto e ricercato. Mataro parte da una fotografia digitale sulla quale interviene con il computer. La sua pittura digitale che nasce nei primi anni Novanta, in largo anticipo sui tempi, torna alla rappresentazione della realtà attraverso un processo tecnico e creativo assolutamente contemporaneo.
Le opere realizzate su diversi supporti, nel nostro caso potrebbe essere un light box di grande formato, in comune hanno un’intensa indagine sull’ambiguo oscillare tra visibile e non visibile. Vaseros Fabbri, e il titolo stesso supporta questa interpretazione, apre una breccia nello specchio, che Alice ha saputo oltrepassare. Guardando con attenzione cogliamo non soltanto i corpi che formano il disegno decorativo, ma la materialità del piacere di delibare il frutto goloso conservato nel vaso Fabbri.

L’opera è una costruzione astratta definita dalla casualità ricercata, caratteristica dei lavori dell’autore. L’immaginario fashion media la lezione delle avanguardie storiche, il dramma degli oggetti futuristi, la decontestualizzazione surrealista e l’effetto straniante del realismo magico. In “Amare Amarene Amare” Gemelli concentra in una sola immagine un’articolata narrazione visiva. L’iter del percorso ideativo prevede la stesura di un progetto, la ricerca degli oggetti, il loro assemblaggio, la creazione di una scena. La composizione deriva da un’idea: l’oggetto si trasforma, mutando la sua originaria funzione d’uso. Il grande vaso Fabbri diventa esso stesso un personaggio.
Gemelli crea un set e, assemblando materiali di recupero, mette in scena una piccola scultura trovata in un mercatino e una scala, utilizzata dall’autore nel set di un servizio per “Elle Decor Italia”, dove ricostruisce con sapiente accuratezza ambienti arredati mostrando l’abilità di un architetto d’interni attento all’espressività fantastica di Gio Ponti.
La composizione e l’angolo di ripresa rileggono i materiali soggetti a una poetica trasformazione. Gli interventi in postproduzione li armonizzano, mettendo in luce un’atmosfera sospesa e onirica. La scultura inanimata assume l’aspetto di una figura femminile intenta a guardare nel vaso dei desideri. Lo scatto è soltanto il momento finale di un articolato e complesso processo creativo. La fotografia ferma una situazione un attimo prima che succeda qualcosa. In evidenza c’è lo sguardo dell’autore e noi guardando l’opera assistiamo anche alla relazione tra l’autore e il soggetto.

Giovanni Gastel usa il territorio della moda per esercizi creativi che hanno la loro matrice in altri ambiti. Mescola linguaggi e grammatiche in una peculiare declinazione dei “generi”. Fabbrifashion è un convincente esempio di questa creativa contaminazione che include la produzione stessa dell’autore, alla quale rinvia con uno stile colto ed elegantemente ironico. Il suo punto di vista Gastel lo trova nell’aggettivo “elegante”, eleganza, è bene precisare, da intendersi come visione del mondo, valore morale più che estetico.
L’autore interpreta l’iconografia della metamorfosi, rappresentata nell’arte dal Rinascimento alla contemporaneità. Alle metamorfosi di Savinio, agli inconsueti accostamenti di Cecil Beaton, allo sdoppiamento delle immagini di Erwin Blumenfeld, all’immaginario di Irving Penn, Gastel risponde con l’equilibrio della composizione e l’espressività dell’immagine. Costruisce un mondo parallelo di pura immaginazione e interpreta in chiave simbolica sia il racconto della moda sia l’icona dell’azienda, l’Amarena Fabbri. D’altra parte la moda stessa è un sistema di segni e di relazioni.
La spontaneità della giovane modella impersona un prodotto sempre giovane. È una messa in scena in chiave poetica. La moda è un atto creato per essere fotografato, e ulteriormente ricreato e rivisitato in postproduzione. La nuova attribuzione di senso mette a fuoco l’uso creativo dell’archivio stesso dell’autore e amplifica l’opportunità che la moda offre di essere mille sfaccettature di se stessi e mille identità differenti.

La ricerca estetica di Franco Fontana si è focalizzata sull’espressione astratta dell’architettura, sull’utilizzo del colore e delle geometrie. In Fabbri 2018 l’autore propone un’interpretazione del paesaggio urbano, mettendo a fuoco il significato paradigmatico di un motivo architettonico d’intenso valore formale.
Non è importante il luogo (un particolare della facciata settecentesca del Duomo Nuovo di Brescia), quanto la capacità di cogliere l’espressione strutturale e formale di un motivo classico. Fontana si attiene alle regole della composizione, eppure emerge l’enigmaticità dell’immagine: l’idea della città storica della provincia italiana si accorda alla “classicità” di un prodotto che appartiene alla nostra memoria. Il suo sguardo ha saputo cogliere nelle regole proporzionali delle altissime colonne corinzie un fondale perfettamente in equilibrio con il motivo decorativo del vaso Fabbri.
Fontana vede nella scena urbana la fotografia che farà, e individua una corrispondenza simbolica nelle scansioni spaziali, nell’articolazione e nell’equilibrio degli elementi. Inquadra idealmente, prima ancora di scattare, il basamento su cui poggiano le altissime colonne corinzie e intuisce che quello è il fondale ideale per il vaso Fabbri: classico come classici sono i rapporti proporzionali delle colonne; un prodotto entrato nei nostri ricordi come legato alla memoria è un monumento. In questo frammento di paesaggio urbano lo spazio - colonne, forma del vaso, sfericità del frutto - è il protagonista.
Anche l’articolazione cromatica è importante: il marmo bianco di Botticino che conserva ancora le sue rare venature cromatiche è un fondale monocromo; in primo piano i lucenti decori blu del vaso e il rosso acceso dei golosi frutti sono colori usati in funzione spaziale.

Gli elementi caratteristici dell’iconografia Fabbri diventano oggetto scenico, mediante un processo di scomposizione e semplificazione delle forme, che acquistano volume e tridimensionalità. Una ballerina, autentica protagonista della piece, impersona la sinuosità e l’esplosione sensoriale dell’Amarena.
La narrative photography, dalla true fiction di Gregory Crewdson alle composizioni di luce e atmosfera di Jeff Wall, è il punto focale della sua ricerca. La staged photography di Vincenza è un procedimento complesso e metodico. Parte dall’immaginare una scena, una storia che traduce in sequenza fotografica. Pensa a come costruire la composizione, studia la luce, pensa ai soggetti e agli abiti. La fotografia, un film stills, sembra far parte di una storia più ampia, ma può vivere anche autonomamente perché le tracce della narrazione sono spunti per l’osservatore portato a ricostruire una propria storia. In questo caso, l’autrice progetta un articolato e complesso set. Parte dal motivo decorativo del vaso Fabbri che nell’immaginario collettivo rappresenta il brand stesso.
La sua Mise-en-scène è un’operazione formale di decostruzione e ricontestualizzazione degli elementi grafici del vaso: scompone in forme geometriche i pattern blu inseriti in uno spazio geometrico bianco. Una ballerina vestita di rosso interpreta l’Amarena Fabbri. È un richiamo metaforico: l’arte della danza rappresenta un’altra arte, l’arte dolciaria della Fabbri. La messa in scena è uno spazio reale oppure costruito? Allo spettatore sciogliere il dubbio.

Nella Nursery Fabbri l’albero capovolto, collocato in un luogo immaginario, cresce in una dimensione a-spaziale e a-temporale. “Trae nutrimento dal Cielo, - spiega l’autore - le sue radici sprofondano nell’Iperuranio e traggono linfa direttamente dal mondo delle idee; idee immutabili, perfette, raggiunte solo da un intelletto sapiente”. La nursery è una quinta aperta su due lati costruita in studio, che alloga un ramo di ciliegio.
È la prima volta che Canini si avvale di una messa in scena per realizzare un’immagine, esplorando tutto il potenziale illusorio della fotografia. L’interazione di uno spazio bidimensionale, quello dell’immagine, e tridimensionale che precede lo scatto costituisce il piacere dello sguardo. Potremmo pensare ai modelli tridimensionali di Thomas Demand, ma l’opera di Canini è immaginifica piuttosto che una minuziosa riproduzione in scala del reale, o ricordare le immagini di James Casebere, creatore di complessi tableaux, ma l’approccio di Silvio è ludico, e conduce in un contesto surreale e ironico.
L’abilità del fotografo sta nell’alludere ad una storia, una favola forse, che non ha vita al di fuori del set che egli crea in studio. Qualsiasi fotografia, d’altro canto, è sempre, in un modo o nell’altro, costruita (attesa, provocata, messa in scena). Canini parte da un’idea e attraverso l’uso sapiente del medium oggettiva la sua intenzione, costruendo l’illusione di uno sguardo sul mondo della fabula.

Camellini entra nel luogo del lavoro, la figura umana, assente, è però tangibile nella “catena di sciroppo”. L’immagine realizzata nello stabilimento di Anzola dell’Emilia potrebbe benissimo far parte di un reportage di fotografia industriale, in particolare una campagna fotografica di luoghi e processi di produzione. Penso, in particolare, all’intenso reportage sulle navi cargo in continuo movimento.

L’autore documenta la vita a bordo, la dislocazione degli spazi e la sistemazione delle cabine. Anche in questo caso non compare la figura umana percepibile nelle tracce della sua presenza. D’altra parte il reportage è il linguaggio che Camellini predilige, come si evince dalla scelta del bianco e nero, che non utilizza però in modo esclusivo.

Quest’opera si inserisce nel processo produttivo di rappresentazione dell’industria, che annovera una lunga storia da Albert Renger-Patzsch a Margaret Bourke-White, da Ugo Mulas a Harry Gruyaert, a Edward Burtynsky. Con questa immagine Camellini contestualizza la fabbricazione di un prodotto iconico. Il titolo stesso è un gioco di parole che rimanda alla catena produttiva. La scelta del micro mosso e dell’immagine sfocata, solitamente considerato un errore da correggere, dà l’idea del funzionamento, e la messa a fuoco selettiva punta sull’idea di movimento, metafora della relazione dinamica tra prodotto e design.
L’autore coniuga passato e presente, fermando nello scatto la ciclicità della produzione, simbolo della serialità e unicità. La serialità dello sforzo ripetitivo, che è un elemento importante, ancorché non visibile, e l’unicità del valore estetico ed attrattivo della forma assunta dal prodotto.

L’artista ha utilizzato un iPhone di ultima generazione per scattare l’immagine che stampa usando un antico metodo di stampa fotografica caratterizzato dal tipico colore blu, la cianotipia.

Un processo fotografico che accentua l’effetto grafico della composizione, ma conserva memoria delle stampe pubblicate nel 1843 da Anna Atkins. I modi e i tempi nella produzione dell’immagine da fotocamera cellulare trasformano profondamente la distribuzione e il consumo delle immagini.
Bertazza si avvale del nuovo dispositivo ma si sottrae al sistema delle connessioni e contraddice la fluidità dell’immagine conversazionale, felice espressione di André Gunthert. Approfondisce la storia del medium preconizzando l’individuazione di un ponte tra passato e presente. Nell’immagine è raffigurata una ragazza nell’atto di saltare stringendo un vasetto di Amarena Fabbri tra le dita. Il gesto, degno dell’audacia barocca e della pittura illusionistica del “sotto in su”, s’avvera in un luogo immaginario senza tempo. Il salto rappresenta, chiarisce Bertazza, un ponte simbolico, eppure saldo, tra passato e futuro, quello che consente all’azienda di rinnovarsi costantemente senza perdere di vista i propri valori e le proprie origini.
La figura femminile di cui resta celata l’identità esprime l’importanza della donna nella storia dell’azienda, dall’artefice della famosa ricetta della “marena con frutto”, Rachele Buriani, alla prevalenza delle maestranze femminili nella fase produttiva. Il fil rouge della produzione di Bertazza, che lavora prevalentemente su materiale d’archivio che rielabora creativamente, è, anche in questo caso, una personale meditazione sul tema della memoria.

Un uomo disteso sotto un albero pregusta il piacere di assaporare un’Amarena, al suo fianco un grande vaso Fabbri. L’uomo, il nonno dell’autore, abita un paesaggio en plein air, una cristallina variazione sul tema del déjeuner sur l’herbe, un paesaggio reale: la campagna sancataldese, dove il frondoso albero di pistacchi ha l’essenziale monumentalità della Quercia di Flageydi Gustave Courbet.

L’uomo è una presenza forte che restituisce l’apparenza fisica della figura umana, in apparente antitesi con l’ideale immagine commerciale. Il volto è dolce, lo sguardo socchiuso e la bocca golosa, bloccati nell’istante dello scatto un attimo prima di gustare il dolce frutto. La fotografia introduce un nesso tra il luogo e l’iconico vaso armonizzati nel tempo sospeso del ricordo. La memoria del natio territorio nisseno si lega ai ricordi dell’infanzia, associati in una sola immagine. L’iconicità del vaso Fabbri non è un semplice contenitore ma un recipiente immaginario che racchiude frammenti di memoria. Appartiene alla vita quotidiana di ciascuno di noi, fa parte del paesaggio domestico dei nostri ricordi. Come la madeleine proustiana, l’iconico vasetto rievoca al nostro autore sapori e profumi del passato. Anche l’azzurro del cielo, luminoso e terso, rimanda ai decori bianchi e blu del vaso in ceramica.

L’autore, estimatore del lavoro di Ferdinando Scianna e Letizia Battaglia, autori pur così diversi, racconta la Sicilia con uno sguardo nuovo, ironico e giocoso, traducendo la luce e i colori del paesaggio con il linguaggio della memoria.

Marena è un dittico composto da una Polaroid e da una stampa da negativo Polaroid. L’opera si presta a diverse letture. Innanzitutto è una riflessione sul mezzo fotografico. La Polaroid, un procedimento di fotografia istantanea con pellicole autosviluppanti, la cui distribuzione cessa alle soglie del nuovo millennio, ha una lunga storia. La fotografia istantanea, lanciata sul mercato americano a fine anni Quaranta, è uno strumento popolare, interpretato creativamente da molti artisti. Paola s’inserisce in quest’ultimo ambito, inoltrandosi nel campo della ricerca d’avanguardia, intrapresa da artisti del calibro di Warhol e da uno sperimentatore instancabile come Nino Migliori.

L’attività sperimentale di Paola Binante, che inizia nella seconda metà degli anni Novanta, interpreta la fotografia off-camera, usa la fotocamera riallacciandosi alla ricerca concettuale. In Marena trasfigura la pregnante iconicità dell’oggetto attraverso un peculiare lavoro di trascrizione. Il suo ambito poetico è lo spazio che si insinua tra la materia ed il linguaggio, tra l’oggetto e la scrittura. Troviamo una vocazione oggettuale-materica, cifra estetica del suo lavoro, nella sua interpretazione del vaso come scultura, collocandolo su un piedistallo. L’operazione concettuale è complessa: il vaso è un’icona, ma è anche un prodotto del lavoro, che ha una sua materialità, simboleggiato dalla mano femminile. Un dualismo che caratterizza la metodologia di lavoro: le diverse dimensioni e presentazione delle Polaroid; l’immagine istantanea e l’uso del banco ottico, segno della sua meditazione sul tempo fotografico. Sullo sfondo di un muro sbrecciato colloquiano l’iconicità e la materialità dell’Amarena. Nello iato tra le due Polaroid l’autrice riconsegna spessore teorico all’atto fotografico, alla sua storia, alla sua valenza di traccia capace di suscitare emozioni e sapere.

De Montis spazia dal linguaggio fotografico a quello audiovisivo e installativo. Sviluppa progetti multimediali tramite l’utilizzo di foto, video e installazioni. L’opera che presenta, LAYERS-Fabbri, è il primo di una serie che l’autrice sta portando avanti. È partita da una lunga riflessione sulla natura della fotografia digitale, rappresentazione numerica di un’immagine bidimensionale. Alessia ne interroga la massima risoluzione e compressione ed evoca, nel perfetto mondo digitale, l’imperfezione della superficie analogica, portando allo scoperto i diversi strati. Convinta che non tutto combaci perfettamente e che proprio nei diversi strati dell’immagine si annidi la vita. Nascosta nell’ombra alberga una sottile emozione.

L’autrice ha voluto realizzare un’immagine distante dall’apparenza spettacolare, opta quindi per la sottile evocazione poetica dei ricordi. Sulla decorazione iconica del vaso Fabbri applica lettere di carta ritagliate. La scritta “Ricorda me da piccola” assume diversi significati: è un intervento manuale che allude al lavoro femminile ed è un’immagine metonimica. La decorazione, un’icona dal forte impatto estetico, simboleggia il prodotto. La scritta è uno spazio aperto, un messaggio nascosto, offerto allo spettatore indotto a interrogare l’emozione del proprio ricordo.

Rui Wu guarda l’iconicità del vaso Fabbri da un’angolazione peculiare; gli interessa la possibilità che l’oggetto ha di diventare qualcos’altro. Come l’autore stesso precisa, parte dai disegni blu sulla ceramica, che considera come il gesto di un pennello che traccia segni associabili alla scrittura calligrafica. Wu procede da una riproduzione fotografica ad alta definizione del vaso Fabbri, ritaglia particolari e frammenti e prospettive curvilinee del motivo decorativo; ricompone questi finti ideogrammi e li fotografa di nuovo. Questi segni potrebbero appartenere alla scrittura cinese o giapponese, oppure coreana o mongola. Wu offre una visione puramente estetica di un lavoro di calligrafia tradizionale, a prescindere dal significato. L’immagine di partenza ha una sua materialità, è il prodotto di un gesto, ed è composta mediante l’uso di pieghe, tagli, prospettiva e illuminazione. Wu introduce una temporalità antitetica a quella immediata dello scatto. La fotografia provoca uno schiacciamento dei piani, riporta l’oggetto alla bidimensionalità, spostando i suoi elementi nello spazio dell’immaginazione. La traduzione della decorazione in scrittura è un’interpretazione creativa, ma che è anche una colta interpretazione della storia.

Wu risale all’invenzione della ceramica in Cina, ripercorre una storia d’incontri e contaminazioni di culture: la porcellana cinese con decori di colore blu, introdotto dal popolo mongolo, ripreso in Cina intorno al 1200. Wu interpreta in modo tutt’altro che superficiale l’iconico vaso Fabbri, individuando il fascino esotico della decorazione Art Nouveau. Il vaso è un oggetto artistico decontestualizzato e rinnovato attraverso il mezzo fotografico. Dal punto di vista estetico è una ricerca sulla storia della rappresentazione. Le quattro immagini fotografiche disposte in orizzontale prospettano una finta scrittura, di cui conserva però tutto il piacere. La selezione e ripetizione degli ideogrammi di questa scrittura immaginaria rammenta all’autore la contemporanea scrittura informatica.